Olivia e il mestiere di vivere
Ha una vita di grande prestigio Olivia. È amata profondamente, venerata come una regina. Elegante, sobria, sempre in nero. Un nero così intenso e lucido da risultare definitivo, impeccabile. Lui rientra a casa e corre da lei. Passano insieme intere giornate senza curarsi del mondo, persi, o meglio, ritrovati. Quelle dita la massaggiano, la sfiorano, lei si lascia solleticare. Lo accoglie senza mai cenno di stanchezza, di noia, di cedimento. Lo osserva mentre dorme, sfinito, con la testa sciolta su di lei. Assieme in ogni intima confidenza. Assieme in ogni sentire, in ogni creare. Le piace immensamente esser la sua musa, la sua ancella, lo specchio della sua anima. Adora quelle mani grandi, a volte delicate e timide, altre irruente e voraci.
Non potrebbe essere di nessun altro Olivia.
Lo conosce a fondo, lo ha visto piangere, lo ha accolto nelle notti insonni. Sono quelli i momenti in cui la cerca, la abbraccia ferito, la invade di tormenti, lucidi rimpianti, malinconia struggente. Ma Olivia conosce anche l’entusiasmo infantile, puro e sempre gentile che lo accende quando è allegro.
La devozione per lui è tale, la sua discrezione così profonda, che sopporta con garbo le giornate passate senza nemmeno una carezza. Lo sa felice tra le braccia di un amore. Sopporta fin’anche di esser l’intima confidente di quell’amore.
Sopporta tutto Olivia. Fino a quel giorno. Un giorno disperato, un giorno insopportabile. Eccolo, seduto di fronte a lei, gli occhi asciutti, gonfi, spremuti di lacrime. La guarda assente, stanco, lontano. Quelle dita così famigliari, così conosciute e amate, la toccano definitive e sacrali. Un tocco funereo, un addio, un punto e basta. Mentre la primavera fuori risveglia la città, scioglie le nevi, partorisce nuovi boccioli, su di lei piombano quelle parole che la rendono altare, che la consacrano lapide:
“Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”.
Si accascia sulla sedia, sfinito, arreso, galleggiando in un sospeso niente. Il silenzio è bacchettato dal metronomo dell’orologio. Olivia vorrebbe gridare,
urlargli tutto il suo amore, dirgli quanto è profonda e irripetibile quell’anima che lei sa. Perché quell’anima lei la sa. La sa tutta. Lui la sente, la sente così profondamente che un moto di rabbia lo scuote, la afferra, la spinge a terra, la picchia, la prende a calci, la apostrofa con ogni offesa possibile, poi corre via furente. Olivia nessun lamento, Olivia lo lascia fare.
Quando è di ritorno, disfatto, ubriaco, stanco, la vede. Immobile, in un angolo del pavimento, con le tracce della violenza addosso. Si avvicina trafitto dalla vergogna. La prende in braccio con tanta dolcezza che lei in cuor suo lo perdona immediatamente.
Comprendere è il mestiere di vivere, vivere è il mestiere dell’amore.
Si guardano a lungo. Le sta chiedendo perdono. Le sta dicendo addio. Un saluto eterno, la morte l’uno dell’altra, ché in quell’istante muoiono assieme.
Il giorno dopo scende con lei per strada. Ecco, sta per accadere, ecco la fine, ecco. La affida ad un giovanetto dalle ginocchia fragili, che sembra non credere ai suoi occhi nel saperla sua. Lui la guarda fugacemente per l’ultima volta, poi fugge. Quell’estraneo la accarezza fiero, mani sudaticce, nervose, senza alcuna melodia. Ogni carezza una ferita, un abuso, un grido. Non ha più voce Olivia, non ha più battiti. Promette a sé stessa che mai nessuno potrà toccarla ancora. Quello stesso pomeriggio sceglie. Disobbedisce, si impunta, si ferma. Il suo primo e unico reato. Odiata, minacciata, non si difende, non cerca di recuperare. Finisce inevitabilmente in carcere. In una di quelle cantinacce maleodoranti, nei sobborghi grigi di qualche palazzaccio, nei fetidi sottoscala condominiali, in quegli anfratti muschiosi e lacrimevoli che sembrano sussurrare: lasciate ogni speranza voi che entrate. Che sull’uscio freddo esibiscono una finestrella piccola, ferrosa, avara, pavido lasciapassare di ossigeno ed echi solari. Tane che nessuno sguardo degna di un saluto.
Al loro interno detenuti accatastati, confusi, promiscuamente avvinghiati.
In una di queste celle, da numerose generazioni, a tu per tu con le ragnatele, dignitosa, silente, in un angolo di uno scaffale arrugginito, se ne sta una rigida valigetta color antracite. La polvere e la muffa hanno sbeffeggiato di macchie l’integerrima custodia, ingrigito la sua tinta, spellato la maniglia, invecchiato le giunture. Ma essa, fedele, protegge ancora il suo bagaglio, dal primo giorno in cui le è stato affidato.
In quel sicuro ventre, in quella tana originaria, si ritrova la nostra Olivia. Sola tra i suoi ricordi. Serenamente dimenticata nella sua detenzione. Il suo abito nero è divenuto un vestito a lutto, il suo ergastolo una promessa d’amore.
Perché Olivia proprio all’amore ha disobbedito.
Mai più si è concessa. Mai più ha pronunciato il nome di quell’indicibile emozione umana. Di quella melodia personalissima che lei ha cantato solo per lui. Per quelle dita ispirate che la suonavano. Unica, irripetibile, intimità.
Ha scelto la ribellione Olivia, ha scelto la morte. Una morte all’origine, la morte del primo vagito. Tra i tasti, titillati, scandagliati, sobillati dal poeta, uno si è suicidato assieme a lui. Bloccato, inerme, immolato ad un’eterna stonatura.
Olivia, non ha più voce. Oliva mutilata nel cuore. Olivia non batte più la sua A di amore.
A Cesare Pavese, con tutta la A possibile.