Fiorire dentro

Fiorire dentro. Il corpo in quarantena.

Ciao indisciplinate del mio cuor. Torno a scrivere di notte, in queste notti dal silenzio pieno, ovattato, arcaico. Esco con il cane e tutto il bombardamento mediatico che rimbomba nelle case, che tormenta la mia testa, è zittito dalla muta densità di una città ferma. Ho deciso di non accendere la televisione fino al telegiornale della sera e disintossicarmi dalla quantità abnorme di notizie contraddittorie, ambigue, in molti casi false che sabotano la chiarezza, la lucidità, la verità che di tanto in tanto spunta fuori. Sono schifata dalla politica italiana, incazzata per i mille tagli alla sanità pubblica, gridano che i medici sono eroi e poi, da decenni, li fanno lavorare in condizioni sempre peggiori, con strutture fatiscenti, carenti di macchinari e di personale. Sono tramortita dallo strazio di chi ha perso affetti, di chi non è potuto nemmeno star vicino ai propri cari e accompagnarli al passaggio. Sono schifata da me stessa, da noi italiani, che parliamo di calcio nei bar come cantava Gaber, invece di fare una rivoluzione. In molti stanno rispettando i decreti, e coloro che non li rispettano, certo, sbagliano, in questa fase di acutissima emergenza. Ma sono le classi politiche di ogni fazione, sono le oligarchie economiche (alle quali noi abbiamo permesso di andare avanti indefesse), che sono criminali nel loro operato, non il singolo cittadino, che, sicuramente non è un santo e semmai ha la responsabilità di non unirsi in una lotta ferma e determinata contro l’egemonia di un progresso che alla fine della fiera risulta decisamente involutivo.

Ho bisogno di staccare. Di metabolizzare. Fuori si sta bene, è notte e non fa freddo, la mia cagnetta odora gli anfratti del marciapiede, io odoro l’aria. Inizia la primavera. Tutto fiorisce, si espande, profuma. Un contrasto beffardo per i nostri corpi reclusi, per quelli malati, per quelli morenti. Tutto così calmo, come se la terra stesse finalmente avendo un tempo per sé. Rientro, prendo il pigiama, mi spoglio.

 Il corpo. Il corpo casa nostra. Il corpo che abitiamo. Il corpo che ci contiene. Che ci sopporta. Che ci ama. Il corpo  sempre vero, concreto, onesto. Il corpo poetico. Il corpo politico.

Mi ascolto, mi guardo. Ho il respiro lento, il naso sempre un po’ ostruito, dovrei andare da un otorino, lo dico da anni. Il fegato se la cava, ogni tanto mi sgrida, il colon mi sopporta a mala pena. Il tempo sulla mia pelle. I chili in più, con i quali litigo. Non eccessivi ma fastidiosi al mio giudizio. Il mio corpo espone tracce, racconta. Quella cicatrice al seno, che seno non è più, quel vuoto sotto l’ascella. Quel giorno che ha segnato per sempre la mia identità, quel giorno carnefice e maestro. Le guance che iniziano ad ammorbidirsi (no, non ditemi cadenti, mi rifiuto), le borse sotto gli occhi. La pancetta. La cellulite per fortuna ancora timida. I talloni secchi, che d’estate si crepano. Le ginocchia che scricchiolano, le caviglie che si lamentano. Ho 43 anni. Ho fatto molto sport, moltissimo. Continuo a farne ogni volta che posso. Danza, arti marziali, yoga, chi più ne ha più ne metta. Ho fatto anche mille stravizi, ho vissuto pienamente la mia fame di sperimentazione. Ho praticato con devozione la dimenticanza del corpo, l’onnipotenza della giovinezza, la noncuranza. Ero magra, atletica, forte. Che bisogno avevo di averne cura? Corpo che parla, corpo fortissimo e irrimediabilmente fragile. Sono decenni questi ultimi in cui stai gridando a più non posso di fermarci. Ci ammaliamo di tumore come non mai. Le/i pazient* oncologic* si sono quintuplicat*, l’età si è abbassata drasticamente, e no, non perché si fa più diagnosi, ma perché i corpi assorbono metalli pesanti, polveri sottili, nell’aria, nel cibo, negli oggetti che usiamo e perché lo stress di una vita forsennata, veloce, senza ascolto, senza umanità ricade sul corpo.  Ci dicono di prevenire, ci dicono di eseguire esami di controllo. Ma intanto ci intossicano. O meglio noi intossichiamo il mondo e ne paghiamo le conseguenze. Una valanga di celiaci, molti assai gravi. Una moltitudine di intolleranze. Di dermatiti. Vaginiti. Tiroide. Pressione alta. Potrei continuare all’infinito. Stiamo uccidendo la terra e la terra ucciderà noi. Piangiamo per l’Australia in fiamme, per gli animali morti, ci scandalizziamo per i ghiacciai in scioglimento, muoviamo campagne ecologiste conto questo o quello. Giustissimo. Ma la verità è che ci stiamo dentro fino al collo. Che siamo consumator*, che siamo affamat* di prodotti che vengono realizzati inquinando, che siamo dipendenti da una vita di progresso con il quale ci imboccano a discapito della salute del pianeta e, quindi, nostra. Il virus siamo noi.

Ciao corpo, come stai oggi? Come ti senti? Hai bisogno di coccole? Scusami. Sono stata egoista. Sorda, cieca. Oggi siamo qui, io e te. Sotto un tetto. A confessarci reciprocamente. Vorrei difenderti. Essere grata per ciò che mi dai. Sì, lo so che non posso avere il controllo sulla vita. Ma posso celebrarla, averne rispetto, fare mille passi indietro. Ne sarò capace? Ho paura di no. Sono viziata. E sono in gabbia. Tutto l’ambiente in cui vivo è votato all’autodistruzione, controindicazione del sistema produttivo capitalista, ampiamente accettata, totalmente minimizzata dalla rivoluzione industriale in poi. Tutto è lontano da te.

Oggi siamo qui. Chiusi. Ti tocco, allungo piano piano ogni muscolo, mi faccio guidare dal tuo respiro. Ti cucino. Cose leggere ma ogni tanto un pezzetto di cioccolata. Ti lavo, ti massaggio con una crema. Ti leggo gli alberi che son diventati pensiero, favola, racconto, poesia. Ti faccio faticare in terrazza, che ci regala un’aria legale. Sempre intossicata. Ma protetta dal contagio attuale. Forse.

È lì, in quell’aria viziata, che io divento maniglia.

 Primavera. Se non posso sbocciare fuori, posso fiorire dentro.  Eh, corpo mio, non è facile, qui vedo in faccia la realtà e la realtà è che siamo la peggior razza animale. Va bene, hai ragione, sto con quello che abbiamo. Sto con te, che sei la mia casa. La mappa del mio vissuto. Tu che abbatti ogni delirio di onnipotenza, tu che mi avvisi sempre, tu che mi vuoi bene. Intanto grazie.

A noi donne, ai nostri corpi in balia degli stereotipi, in balia dei pregiudizi, martoriati dalle nostre insicurezze, ai corpi belli come sono. Agli uomini e ai loro corpi, sempre e comunque belli come sono. Alla forza, che non è rigidità, ma flessibilità. A chi è dietro le sbarre, carcerat*, malat*, depress*, sfruttat*, a coloro che lottano per dar voce al proprio corpo. Alle nostre vagine, ai nostri peni in quarantena. Che si possa sbocciare dentro. Ché il polline dei fiori diserta, il polline concima, il polline vola alto, oltre i muri, oltre la malattia, oltre i divieti.

 

Ma il giorno che ci apersero i cancelli
che potemmo toccarle con le mani
quelle rose stupende
che potemmo finalmente inebriarci
del loro destino di fiori
divine lussureggianti rose!
Non avrei potuto scrivere nulla in quel momento
nulla che riguardasse i fiori
perché io stessa ero diventata un fiore
io stessa avevo un gambo e una linfa.

Alda Merini

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