Datemi una maschera e dirò la verità
Un Fascino circonda un volto
Imperfettamente scorto –
La Dama non osa alzare il Velo
Per paura che si disperda –
Ma scruta al di là del tessuto –
E desidera – e si nega –
Affinché il Parlare – non annulli un desiderio
Che l’Immagine – soddisfa.
(Emily Dickinson)
Care indisciplinate del mio cuor, eccoci arrivate a Natale di questo anno così complesso. Non mi soffermo sulla retorica di quanto saranno diverse queste feste, difficili, ma anche più connesse con i valori umani (che poi tanto retorica non è, ma che propinata in quantità industriale e promossa in ogni dove assume quella patina qualunquista che rende il tutto vomitevole, almeno a mio avviso).
I miei auguri per tutte noi sono fatti di abbracci e libertà. Uguaglianza e sostegno reciproco. E un costante dialogo con noi stesse.
A tal proposto, quest’anno voglio scrivere anche io una letterina. La scrivo a me stessa. Voglio scendere dal camino dei miei desideri, darmi un buffetto mentre dormo, e lasciare accanto al mio letto piccole promesse. Lo facciamo tutte? Chiediamo a noi stesse i doni che desideriamo. Facciamoci questo regalo.
Benissimo. Io ci provo.
LETTERA A MARZIA NATALE
Cara Marzia, a scriverti è quella parte di te che non si sta mai ferma, ricca di desiderio, passione e centocinquantamila conflitti interiori. Visto che è un anno così diverso, così speciale, mi è sembrata un’occasione perfetta per chiederti di venirmi in aiuto. Ho giusto giusto alcune semplici richieste che spero tu possa soddisfare.
In questa data di presepi e lucine vorrei che tu mi facessi scartare un chilo e mezzo di autostima in più, 700 grammi di leggerezza, cinque o sei confezioni di coraggio, un abbonamento “ora, domani è tardi”, l’allenamento settimanale al vaffanculo, una pratica di gestione finanziaria meditativa, almeno quattro appuntamenti al mese di tempopersoacaso, svariate ricette “perdonatialtrimentinonneesci”, un pacchetto “ansia-addio” e diversi scatoloni di integratore gentilezza.
Mi piacerebbe ricevere da te anche uno sconto efficace sull’autocritica, che sia uno sconto sensato, che elimini paranoia, tenga a bada il perfezionismo e mantenga salda la quota per la scuola degli errori.
Direi inoltre che una buona dose di gratitudine potresti sempre metterla sotto l’albero, di quella per me stessa e di quella per ciò che ho la fortuna di avere o di ricevere. Lo so, è una richiesta scontata e n’anticchia perbenista, ma siamo a Natale, su non fare la solita polemica. (certo io lo chiedo ad una indisciplinata…)
No, non ho finito.
In un pacchettino vorrei tu mettessi la mia dose di femminismo della quale ormai non riesco più a fare a meno. Non mi interessa se risulto aggressiva, acida, rompiattributi e quant’altro. C’è chi mi dice che non incontrerò facilmente un uomo da amare e dal quale essere amata. Se è così chissene. Una persona alla quale dare amore e dalla quale riceverlo, non può che agire naturalmente senza alcuna discriminazione, nemmeno leggera, nemmeno sottile.
Ok, ok, una cosa la riconosco. Ho una certa diffidenza verso l’universo maschile che riconosco non portare da nessuna parte.
Accetto volentieri una scatola di fiducia e accoglienza, solo se condita da lucida osservazione e assolutamente senza idealizzazione. Perdona, ma sono intollerante, ho bisogno di una dieta “illusion free”.
Va bene, nella scatola aggiungi anche una dose di rischio, tanto se mi porti altro coraggio, ce la posso fare.
Lo so Marzia, son tante cose. E tra l’altro ho lasciato per ultima la mia richiesta più sentita. Ci tengo così tanto che sono disposta a rinunciare a tutte le altre, ma questa, questa ti prego trova il modo di esaudirla.
Vorrei una carrettata, che dico, un baraccone, che dico, un intero pianeta fatto di arte, scrittura e teatro a volontà.
Già. A volontà. Sì, una specie di paese dei balocchi. No, non importa se mi cresceranno le orecchie e raglierò. Da brava indisciplinata mi frega nulla dei pessimi voti. Un paese dove smascherarmi di ogni orpello chirurgico e tornare a vestire archetipi.
Indossiamo maschere da quando siamo sulla terra. Maschere che combattono il contagio dell’abbandono, che proteggono dall’oblio, dalla distrazione, dalla quotidiana superficialità. Maschere che amplificano energia, voce, gesto. Indossiamo maschere per evocare, ingrandire, comunicare, dare senso e corpo al mistero, diventare ciò che non siamo. Indossiamo maschere che rendono gigante ciò che siamo, o possibile ciò che non abbiamo il coraggio di essere. Maschere rituali, religiose, mortuarie, carnevalesche, teatrali, psicologiche, sociali.
Spesso, c’è tanta più verità in una maschera, che sulla pelle.
Cara Marzia, certo non dipende da te questo strano tempo in cui tutta l’arte è sospesa, zittita, invisibilizzata. Ma ti chiedo di tenere sempre vivo il carnevale che hai dentro. Di continuare a fare del teatro il tuo tempio, la tua preghiera, la tua offerta e del tuo corpo, del tuo pensiero, della tua voce il tuo teatro. Perché un tempio ha porte sempre aperte. Ti chiedo di continuare questo rito ogni giorno nell’attesa che torni ad essere collettivo.
Intanto guardo questo nostro presente, con il sorriso e con il pianto, e mi viene in mente la maschera che i medici usavano nel 1600 durante la peste.
Cito da Wikipedia
L’uso di rudimentali maschere protettive è attestato a partire dal XIV secolo quando i medici, durante le epidemie, iniziarono a indossare particolari maschere a forma di becco, tenute ferme alla nuca da due lacci. L’idea di un indumento completo fu proposta nel 1619 da Charles de Lorme, medico di Luigi XIII, prendendo come spunto le armature dei soldati. Oltre alla maschera a forma di becco, già esistente in Italia e in uso soprattutto a Roma e Venezia, Lorme ideò una veste idrorepellente in tela cerata lunga fino ai piedi, comprensiva di guanti, scarpe e cappello a tesa larga.
La maschera era una sorta di respiratore: aveva due aperture per gli occhi, coperte da lenti di vetro, due buchi per il naso e un grande becco ricurvo, all’interno del quale erano contenute diverse sostanze profumate (fiori secchi, lavanda, timo, mirra, ambra, foglie di menta, canfora, chiodi di garofano, aglio e, quasi sempre, spugne imbevute di aceto).
Lo scopo della maschera era di tener lontani i cattivi odori, all’epoca ritenuti, secondo la dottrina miasmatico-umorale, causa scatenante delle epidemie, preservando chi l’indossava dai contagi. Come accessorio, inoltre, esisteva un bastone speciale, che i medici utilizzavano per esaminare i pazienti senza toccarli, per tenere lontane le persone e per togliere i vestiti agli appestati.
La popolazione, tuttavia, non amava tale abbigliamento, accostandolo all’idea della morte. L’uso dell’abito del medico della peste cadde in disuso nel corso del XVIII secolo.
Guardo questo nostro presente e attendo.
Che possano cadere i bavagli, che ci si possa nuovamente contagiare di pensiero creativo. Chi di noi sale su un palco e indossa la maschera, non è diverso da chi si siede e la guarda. Siamo i due estremi di un ponte.
Un abbraccio forte a te Marzia, e a tutte le indisciplinate desiderose di liberare la propria natura, di giocare con il proprio clown, con quell’essenza segreta che ci è propria.
P.S.
Scusa, dimenticavo. Portami anche una bottiglia d’amore. Invecchiato please. Quello che si degusta con calma, a piccoli sorsi, quello che ti scalda la bocca e il cuore.
Lettera bellissima, magica e vera, ti auguro vengano esauditi i tuoi desideri, in parte anche nostri, di tante indisciplinate innamorate della vita…
❤ avanti tutta!
Cara, grazie! Avanti tutta!