Cucire le ali. Una liberazione artigiana.
Tutta la mia vita, da quando sono nata, è un’altalena che dondola impazzita tra la libertà e la schiavitù. Una corsa continua verso la liberazione, molteplici cadute nelle celle dell’io. Non credo di essere sola in questo tiro alla fune, incontro spesso anime tese a spiccare il volo incatenate a terra da radici profondissime.
Da piccola mia madre mi raccontava cose. Fiabe antiche, storie inventate e anche le sue avventure di infanzia. Erano i momenti che amavo di più. Sapere di mamma bambina vivacissima e creativa, che giocava tra macerie e rastrellamenti. Mi batteva il cuore quando iniziava con Una volta stavo…una volta andai…. Quanto sentivo vero quel c’era una volta.
Ora che sono adulta, con un morso allo stomaco, mi rendo conto che mia madre mi stava raccontando la guerra con ironia, garbo e suspence, restituendomi il dolore e la paura intrecciate con la gioia e la fantasia dell’infanzia. La guerra, le sirene dei bombardamenti, le cantine e i minuti passati a farsi la pipì addosso, con la febbre salita all’improvviso, con gli occhi chiusi di mia zia piccola e quelli aperti, sgranati di mia madre, che non voleva perdere un istante di quella vita. La guerra con i ragazzini e le ragazzine a rincorrersi tra i palazzi devastati, a raccogliere oggetti per strada e farne giochi, a costruire i burattini con i legnetti, a creare le bambole con le pezze, il pallone con gli stracci. La guerra e gli sfollati, la guerra e gli amichetti volati in cielo, anni nomadi, nascosti tra un convento e un altro, in 7 in una stanza, con nonna che cucinava sulla brace accesa dentro un bidone. E mio nonno sparito per anni, antifascista, che appariva solo ogni tanto con un carico di cibo e di cose portate dal mercato nero, in tempo per dare uno scappellotto a tutti i figli e procrearne un altro. E quei ricordi di scuola, i sabati in classe passati in disparte, con il veto di nonno al sabato fascista, la paura dei soldati, la curiosità dei primi volti afroamericani amari e dolci come la cioccolata che regalavano. Mi raccontava mamma, la guerra e le botte in casa, le botte di un padre e una madre nati nei primi del 1900, che non avevano conosciuto nessun calore genitoriale e a loro volta educavano menando.
Mi raccontava di una bambina che nonostante tutto sbatteva le ali, nata per volare, libera di essere fuoco. Un bambina che ha superato la guerra, ma che, come tantissime donne, ha portato per tutta la vita i segni profondi delle catene di un’educazione patriarcale violenta, coercitiva, fedele al dogma donna figlia/sposa/madre. Mia madre la guerra l’ha vissuta soprattutto in casa. La vive da tutta la vita dentro sé stessa. Le catene non ci sono più da 60 anni. Ma quando la morsa è così tanto stretta, quando l’anima è stata ingabbiata, invisibilizzata, colpevolizzata e quando le ferite del corpo sono diventate voragini del cuore, anche trovare pace è una guerra. E va a finire che la liberazione spaventa.
Mio babbo pure mi raccontava. Ma per sua natura è più discreto. Mi diceva delle scuole saltate, sfollate, scuole in classi comuni, al di là delle età. Di lui che non ha parlato fino ai 4 anni. Di un Italia da ricostruire.
La guerra vera, quella che vediamo in televisione, quella che per noi è immagine di repertorio, è zapping, è beneficienza, quella viva e crudele in tanti paesi, l’hanno vissuta i nostri anziani. Molti ormai non ci son più. E quei pochi, quando la raccontano, non hanno 85, 90 anni, ma 5 o 6. A parlare sono i bambini della guerra. Che si ritrovano oggi, dopo una vita, nuovamente in gabbia.
La guerra in tutte le sue varianti: la guerra interiore, la guerra di classe, la guerra economica, la guerra di genere, la guerra razziale.
Oggi anche si parla di guerra. Una pandemia da combattere, un paese in ginocchio. Non lo so se mi piace parlare di lotta quando subentra una malattia. Preferisco immaginare un dialogo, che sia con il virus, con il cancro, con altre patologie. Un dialogo tra gli organi del corpo, l’anima e un nuovo linguaggio che si impone, grida la sua presenza.
Ma non mi dilungo su questo, oggi che siamo tutti feriti, oggi voglio immaginare cosa è, cosa può essere, la liberazione.
Quelle piccole piume,
disperse nel mondo
ci aspettano ancora
tra il cuore e l’asfalto,
che siano le dita
a cucire la storia
che sia uno sciamare
di sottili rammendi
uno stormo di ali
dai ricami modesti
un filo invisibile
a unire i frammenti
che sia fatta a mano
la nostra liberazione.
La tua vita é arte, cara Marzia, in tutto ciò che fai, pensi, scrivi…sento l’affinita’ con i tuoi voli, con quello sbattere di ali, che per me, spesso è stato a vuoto. Pur stando a terra, ferita, fragile, impotente…le ali iniziavano a sbattere, con tale rabbia, da far uscire prepotente il grido. Mi ribellavo, con la bava alla bocca, ma poi, l’orda famelica era pronta a fare il suo pasto. Quanta fatica far esplodere il nostro essere femminile, la nostra libertà. Ora siamo in un altro racconto, che mai avrei pensato di vivere, il nostro volo non è terminato, siamo sospese a mezz’aria, con il fiato sospeso, ma lo sguardo ribelle e presente si sta nutrendo di nuova linfa necessaria. Vitale. Torneremo, perché non siamo mai andate via. 💗
Cara meravigliosa Anna, grazie per la tua sensibilità. Ti dedico i versi della nostra Alda.
Io ero un uccello
dal bianco ventre gentile,
qualcuno mi ha tagliato la gola
per riderci sopra,
non so.
Io ero un albatro grande
e volteggiavo sui mari.
Qualcuno ha fermato il mio viaggio,
senza nessuna carità di suono.
Ma anche distesa per terra
io canto per te
le mie canzoni d’amore.
Grazie mia cara Marzia per questa poesia!
Ci vediamo presto…al prossimo volo!❤🌷